Raffaello e la Visitazione, nel cinquecentenario della morte


Nella notte tra il 5 e il 6 aprile 1520 moriva Raffaello Sanzio, secondo Giorgio Vasari (ne Le Vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori) a causa degli eccessi amorosi che caratterizzavano la sua vita (cito il testo: “Il quale Raffaello, attendendo in tanto a’ suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi, onde avvenne ch’una volta fra l’altre disordinò più del solito; perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da’ medici che fosse riscaldato; onde, non confessando egli il disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue; di maniera che indebilito si sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro”). Il biografo ufficiale degli artisti del Rinascimento ci dice sostanzialmente che gli fu praticato un salasso, cosa che molto probabilmente accelerò la sua morte, avvenuta a soli 37 anni; oggi sappiamo che in realtà morì per una pleurite. In tempi di coronavirus potremmo definirla una curiosa, amara coincidenza, con tutto il rispetto per gli ipocondriaci.

Tra l’altro il Vasari ci dice che morì di Venerdì Santo, e sempre un Venerdì Santo il ‘divin pittore’ era nato ad Urbino nel 1483 da Giovanni de’ Santi, pittore molto stimato e capace, dal cui nome deriverebbe appunto ‘Sanzio’.
Come noto, nel 2020 ricorre il cinquecentesimo anniversario della morte del più celebre pittore del Rinascimento e potremmo dire di tutta la storia dell’arte. Siamo appunto al sei aprile, giorno che per la mia generazione significa solo una cosa: terremoto dell’Aquila, 6 aprile 2009, ed ho pensato di poter unire queste due date, facendo conoscere a quanti vorranno spendere dieci minuti del loro tempo così stranamente dilatato in questi giorni di quarantena, un’opera che lega Raffaello e il capoluogo abruzzese. Si tratta della “Visitazione Branconio”, opera conservata al Museo del Prado di Madrid ma inizialmente destinata alla Cappella della Famiglia Branconio nella Chiesa di San Silvestro a L’Aquila. I Branconio erano una ricca famiglia di orafi appunto aquilani, e per loro Raffaello progettò un palazzo nel rione Borgo, nei pressi della Basilica di San Pietro (demolito poi nel Seicento per fare spazio al colonnato del Bernini). Giovanni Battista Branconio, detto Branconio dell’Aquila, consigliere di Papa Leone X e molto noto nelle cronache romane dell’epoca, ebbe modo di stringere amicizia con Raffaello e quindi di commissionargli una Pala d’altare destinata alla cappella di famiglia nella succitata chiesa.
Inoltre il Branconio, secondo alcune interpretazioni, dovrebbe essere l’uomo ritratto insieme a Raffaello nel celebre doppio ritratto (noto come Raffaello con un amico), conservato al Louvre (foto).

Quanto alla Visitazione, essa è databile al 1518 circa, stesso periodo di realizzazione del palazzo romano, di cui doveva essere una sorta di complemento. Essa si articola in diversi piani narrativi: in primo piano l’incontro tra la Vergine Maria e Santa Elisabetta, mentre sullo sfondo la scena del Battesimo di Cristo che avviene molti anni dopo (quindi una prosecuzione temporale della scena in primo piano). Questa articolazione dell’opera in più piani cronologici e spaziali ricorda l’ultimo capolavoro conosciuto del Sanzio, la Trasfigurazione, dove i piani sono addirittura tre, come pure rimandi ad altre opere sono riscontrabili in dettagli dell’acconciatura di Maria o nel velo di Elisabetta. La scelta dell’episodio della Visitazione per l’opera destinata alla famiglia Branconio potrebbe risiedere nel doppio legame ideologico tra Maria-Elisabetta e i figli Cristo-Giovanni Battista. Giovanni Battista è chiaramente il committente dell’opera, mentre Elisabetta era il nome di sua madre. Le due figure principali si stagliano come statue imponenti in primo piano, la scena si svolge insolitamente all’aperto (e non in un tempio come prevedeva l’iconografia ricorrente) e, come detto, i rimandi ad altre opere del Sanzio fanno protendere senza dubbio per una sua ‘ideazione’ dell’opera. Perché insisto su questo dettaglio? Perché secondo gli esperti la trama pittorica non ha esattamente il ductus, l’andamento morbido dell’urbinate, piuttosto dei suoi seguaci, uno su tutti Giovan Francesco Penni per il modo di stendere il colore. Ma questo non deve indurre i profani a pensare che l’opera non sia attribuibile quindi a Raffaello: si tratta semplicemente di un modo moderno di intendere l’autografia delle opere, esempi del genere sono più che ricorrenti nella storia dell’arte, specialmente del Rinascimento! La conferma la troviamo nell’iscrizione in basso, dove si legge «RAPHAEL URBINAS, F» e «MARINUS BRANCONIUS, F, F» (abbreviazioni da sciogliere in Raphael Urbinas Fecit, e Marinus Branconius, Fecit, Fieri). La prima dovremmo intenderla come “Raffaello e aiuti”, la seconda come “Giovanni Battista” in luogo di Marino, che era suo padre, ma non il vero committente. Egli infatti non poteva comparire in prima persona in quanto, essendo protonotario apostolico, secondo il diritto canonico alla sua morte avrebbe dovuto lasciare i suoi beni alla religione. Stessa cosa avvenne per il succitato Palazzo nei pressi di San Pietro, nei cui documenti compare sempre il nome di suo padre Marino. Varrebbe la pena approfondire la figura di Giovanni Battista Branconio, ma mi limito ad accennare che fu molto vicino sia a Papa Giulio II che a Leone X: di quest’ultimo pare addirittura fosse stato finanziatore durante il conclave del 1513 che lo vide eletto Pontefice, e (vicenda questa più nota) custode del suo elefante Annone, esemplare albino donato al Papa dal re del Portogallo nel 1514 ed alloggiato nei giardini del Vaticano per soli due anni, prima di perire in un habitat chiaramente non adatto.
Tornando all’opera in oggetto, essa subì diverse peripezie che la portarono infine lontano da L’Aquila. Questo resta un grande rammarico per gli aquilani: sta di fatto che, per le pressioni del Re di Spagna Filippo IV e per intercessione di Alessandro VII, Francescantonio Branconio, discendente del committente, donò il dipinto alla Spagna; durante il periodo napoleonico fu ceduta alla Francia per poi fare ritorno “in patria” dopo il Congresso di Vienna, trovando sistemazione prima all’Escurial e poi al Prado, dove ancor oggi si conserva, mentre all’Aquila è rimasta una copia, la quale però da pochi mesi è tornata fruibile al pubblico dopo il restauro della chiesa nel centro della città.
Quanto all’originale, proprio perché siamo nell’anno del cinquecentenario dalla morte di Raffaello si trovava esposta alle Scuderie del Quirinale per l’importante mostra “Raffaello 1520-1483” in programma dal 5 marzo al 2 giugno ma interrotta dopo pochi giorni per effetto del DPCM dell’8 marzo 2020 per il coronavirus. Confidando che essa, come tutte le attività in Italia, possa riaprire i battenti al più presto (il che significherebbe anche esserci lasciati alle spalle questa brutta esperienza), spero di aver sollecitato l’interesse di chi ha letto questo mio piccolo contributo ad andarla a vedere dal vero.
L’arte dovrebbe essere considerato un bene di primaria importanza, e come tutte le forme dell’espressione della sensibilità umana, è senza dubbio una medicina per l’anima. A conferma di ciò, riporto in conclusione il distico finale dell’epitaffio inciso sulla tomba di Raffaello al Pantheon (dove volle essere sepolto), composto da Pietro Bembo:
«Qui sta quel Raffaello:
da lui, quand’era vivo, la gran madre delle cose temette d’esser vinta;
e, mentre egli moriva, temette di morire»


Iolanda Attanasio
dott.ssa in Storia dell'arte